martedì 22 aprile 2014

L'autografo (Racconto)

Ah, la vanità! L’opinione comune vuole che sia un peccato mortale, una tentazione che gli uomini intelligenti farebbero bene a rifuggire! Ma se oggi sono  diventato quello che sono, ossia un sobrio e rispettabilissimo uomo di potere, è a lei che debbo tutto. 
Ebbene sì, a tutti voi che nella mia persona scorgete un magistero di equilibrio, a voi che vi sentite sollevati pensando che innumerevoli questioni delicate, dalle quali dipende la sorte del mondo in cui vivete, stanno ancorate nelle mie salde mani, io confesso che all’origine del mio successo non vi è nessuna vocazione al sacrificio, nessun senso del dovere nei confronti della comunità, ma soltanto un capriccio da vero narciso!

Ma lasciate che vi racconti la mia storia dal principio. Tutto cominciò un afoso pomeriggio di un sabato romano. Avrò avuto appena dieci anni e mio padre ed io ci apprestavamo a tornare a casa  da una lunga passeggiata. Poiché il caldo era notevole, a un certo punto decidemmo di fare una sosta ai tavolini di uno dei  bar che costeggiavano via Veneto, decisi a rinfrancare la gola dall’arsura. Appena sedemmo, il mio sguardo fu attirato da tre ragazze,  sedute al tavolo di fronte, che portavano avanti una scialba conversazione che in verità pareva non interessare nessuna di loro, intercalando lunghe e rigeneranti sorsate di bibita ghiacciata.
All’improvviso una di loro, cominciò a dimenarsi furiosamente e a dar di gomito. Agitava le braccia forsennatamente indicando un uomo di bell’aspetto, straordinariamente elegante, che passeggiava
disinvolto lì a pochi metri, nascondendo lo sguardo dietro il paravento dei suoi occhiali da sole. Le altre due ragazze sollevarono gli occhi e rimasero per un momento sbigottite. Poi, dopo essersi consultate, tirarono fuori dalle loro borse un pezzetto di carta e si precipitarono incontro all’uomo che nel frattempo, accortosi del trambusto che  aveva creato, si era messo a sorridere e si era finalmente sfilato gli occhiali. In quel momento che lo riconobbi anch’io: era Marcello Mastroianni. 
Eccitato da quella scena, mi voltai verso mio padre in cerca di complicità, ma ricevetti in cambio solo una frasetta sussiegosa che sgonfiò in un istante tutto il mio entusiasmo. Ero sollevato di non avergli rivelato il mio proposito di avvicinarmi all’attore per vederlo da vicino e per non insolentirlo ulteriormente, distolsi anch’io lo sguardo e mi misi come lui a recitare la parte dello snob indifferente. 
Ma per quanto mi sforzassi di compiacere mio padre, non potevo fare a meno di gettare di tanto in tanto un’occhiata fugace lì davanti. Riuscivo a intravedere che intorno a Mastroianni si era radunato un folto capannello di curiosi, i più dei quali si limitavano a osservarlo. Altri, più audaci invece, cercavano di scambiare con lui qualche parola. 
Il divo però non sembrò apprezzare l’addensarsi della folla e si concesse generosamente solo alle ragazze che per prime lo avevano notato. Distribuì loro baci sulle guance, firmò sui foglietti gli autografi richiesti, dopodiché si dileguò, raggiunse di corsa la sua auto sportiva e scomparve dalla scena.
Le ragazze tornarono al loro tavolo estasiate, e io le fissai a lungo, intente ad adorare in silenzio, ognuna per conto suo, quella specie di feticcio che il divo aveva loro offerto in dono. Per lunghe settimane ripensai ossessivamente all’avvenimento di cui ero stato testimone: l’immagine della folla in visibilio attorno al divo mi si era conficcata come un rovello nella testa; ma più di tutto, lo confesso, mi aveva incantato quel meraviglioso e astruso rituale dell’autografo. Rivedevo quella situazione, la studiavo nei minimi dettagli senza giungere a una conclusione: com’era possibile, mi chiedevo, che una firma scarabocchiata su un foglio potesse diventare, al pari di una sacra reliquia, un oggetto tanto ambito e venerato? 
Affascinato da questo strano fenomeno, cominciai a sognare anch’io di essere io un divo che firmava autografi ai suoi ammiratori sdilinquiti. Ci presi gusto così tanto che dopo qualche tempo non ci fu più notte in cui non indulgessi in simili fantasticherie. Tuttavia,  quando la notte m’immaginavo d'essere un grande artista, e pensavo a quale straordinaria vita di passioni, amori, onori e successi, fossi destinato, dopo un po’ cadevo vittima di un vago senso di oppressione. C’era in questi vagheggiamenti un punto che non mi convinceva: come avrei fatto io, mi chiedevo, con il mio carattere schivo e riservato, ad adeguarmi alle pressioni, ai pettegolezzi, alle invidie dei colleghi, alle deliberate violazioni della privacy, in breve a tutto quello che avrebbe comportato il semplice fatto di essere un personaggio pubblico? Per quanto possa sembrare curioso, mi resi conto fin da subito che non erano la celebrità o l’arte che desideravo realmente; né tantomeno il successo: la mia sete di gloria era tutta racchiusa nel desiderio di ripetere all’infinito quel banale gesto di una mano che disegna il suo nome per farne dono agli altri. 
Per tutti gli anni della mia gioventù coltivai in gran segreto questo desiderio. Ma per quanto ci girassi intorno, mi ritrovavo prigioniero sempre della medesima impasse: come potevo arrivare a firmare autografi, accedere a un privilegio per definizione riservato ad artisti e gente di spettacolo, io non avevo alcuna indole creativa né tanto meno m’interessava averne una? La sola idea di iscrivermi a una scuola di recitazione, di prendere lezioni di musica, nella speranza un giorno di diventare famoso, mi deprimeva mortalmente. Pensai al più che avrei potuto mettermi a imbrattar tele, spacciandomi per pittore d’avanguardia: con un pizzico di fortuna e l’aiuto di qualche critico compiacente, mi sarei potuto guadagnare una discreta fama. Ma poi, a pensarci meglio, mi resi conto che da pittore d’avanguardia – esclusi quelli riversati sulla tela a beneficio di musei e collezionisti – non avrei rilasciato molti autografi, e questo contravveniva al mio scopo ultimo.
Fatte queste considerazioni, decisi infine di intraprendere, tra le vie che conducono agli autografi, una che non avevo prima considerato ma che, a una più attenta analisi, mi sembrò esser quella a me più congeniale, giacché la natura mi aveva fornito di muscolatura robusta e di polmoni infaticabili: divenni dunque uno sportivo.
Durante tutti gli anni del liceo mi misi a dura prova, mi allenai per cinque ore al giorno, comprese le domeniche. Dal principio, per non chiudermi nessuna strada, praticai diverse discipline. Mi concentrai poi su due in particolare, il tennis e la pallacanestro, nelle quali mi pareva di riuscire meglio.
Presi parte ad alcuni tornei studenteschi e portai a casa anche qualche medaglia nel ruolo di pivot; come tennista invece vinsi persino un torneo, sulla terra battuta, a livello regionale. Me la cavavo insomma, ma ahimè, restavo sempre un dilettante: se non reggevo il paragone con un professionista qualsiasi, pur anche d’infimo livello, figurarsi quale invalicabile abisso si spalancava tra me e un campione beniamino del pubblico firmatore di autografi. 
Così, l’ultimo anno di liceo, deluso, battei definitivamente la fiacca: appesi canottiera e racchetta al chiodo, riposi nel cassetto i miei infantili sogni di gloria e li chiusi dentro a chiave.
Uno strano meccanismo compensatorio fece sì che mi buttassi a capofitto negli studi. Diventai uno studente modello, mi diplomai con il massimo dei voti e l’anno successivo mi iscrissi, con sorpresa di tutti, alla facoltà di economia e commercio.
Di lì in avanti filò tutto liscio. Gli anni dell’università scivolarono senza che me ne accorgessi, mi laureai con tutti gli onori, conseguii con altrettanto successo un dottorato in un’università straniera dopodiché, di ritorno al mio Paese,intrapresi una raggiante carriera accademica.
Tuttavia, durante la mia prima sessione di esami,quando uno studente molto dotato, dopo una brillante prova mi porse il suo libretto, mi resi conto che finalmente, anche se in maniera buffa, la mia firma, posta accanto a un bel voto a sancirne l’ufficialità, aveva  un valore per qualcuno.
Bastò davvero così poco perché e la mia antica fissazione riaffiorasse con tutta la sua forza. Eccitato da quell’esperienza, adottai con i miei allievi un metodo d’insegnamento innovativo e originale e astutamente feci in modo di cucirmi addosso una fama di professore  alternativo. Gli studenti cominciarono ad ammirarmi e in breve tempo mi presero a modello: in capo a un anno mio nome divenne tra più chiacchierati nelle aule e i corridoi.
Eppure nulla di quanto facessi assolveva a un preciso intento pedagogico, ero insincero: quel che mi interessava veramente era di fare dei miei poveri studenti la mia piccola platea, un nocciolo di fan irriducibili a cui promettere i miei autografi. E infatti, durante le lezioni, non facevo che pensare a quando si sarebbero presentati per gli esami.
Quando quel giorno poi arrivava, andavo in preda a un’eccitazione irrefrenabile: accoglievo i candidati atteggiando il volto a un enorme sorriso, li interrogavo per cinque minuti, appena il tempo di una mezza domanda, e dichiaravo subito conclusa la prova. Mi fingevo entusiasta, davo loro voti molto alti e mi godevo l’espressione che assumevano quando gli riconsegnavo il libretto. Mi beavo del loro sguardo imbambolato e mi piaceva attribuirlo, più che al voto, a quella firma che avevano ricevuto in dono dal loro amato professore - anche se sapevo che, in verità, erano soltanto stupiti di essersi beccati un trenta e lode, pur avendo fatto quasi scena muta.
In poco tempo, questa del firmare voti sul libretto si trasformò in una vera e propria dipendenza. Pur di poter suggellarle col mio autografo, cominciai durante i miei corsi a istituire inutili prove intermedie, a cadenza prima mensile, poi bisettimanale. Durante un consiglio di facoltà, lottai da solo con tutte le energie, per istituire una sessione suppletiva degli esami nel mese di novembre e, alla fine, contro ogni aspettativa, la spuntai in barba a tutti gli altri professori.
Col passare del tempo queste mie insolenze finirono per esasperare i miei colleghi, che cominciarono a isolarmi; ma per fortuna il loro ostracismo era ampiamente ripagato dal consenso di cui godevo presso gli studenti. Questi infatti credevano di scorgere in me uno di quei rivoluzionari per i quali bisogna sovvertire il sistema dall’interno.
Dapprincipio non vi nascondo che recitare questa parte fu davvero molto divertente, ma poi gli eventi presero una piega che non potei più controllare; in breve tempo non ci fu più assemblea studentesca in cui non si implorasse un mio intervento, non un corteo in cui non mi si chiedesse di sventolare una bandiera, non un comitato di lotta che non mi chiedesse di presiedere alle sue riunioni velleitarie.
Rimasi così invischiato nelle panie dell’immagine di me stesso che mi ero costruito che alla fine, adducendo come motivazione fantomatiche pressioni politiche dall’alto, trovai una scusa per abbandonare l’università. Ironia della sorte, i miei studenti, anziché urlare al tradimento, preso sul serio quella scusa strampalata e organizzarono uno sciopero collettivo delle fame per chiedere il mio reintegro.
Ma io della scuola non volevo più saperne, cambiai rotta definitivamente e intrapresi la carriera di manager. Cominciai in sordina, con qualche incarico di piccolo rilievo, ma dopo poco fui chiamato alla guida dell’ufficio italiano di un’importante organizzazione finanziaria, per la quale coordinavo progetti di sviluppo economico su scala mondiale. I primi tempi mi diedi da fare alacremente. Mi imposi di esser ligio al mio dovere, di non approfittare del mio ruolo per assecondare la mia smania di grandezza. Collaborai attivamente con i miei sottoposti e spesi tutto me stesso vagliando le migliori proposte che giungevano al mio tavolo.
Ma uno sciagurato giorno capitò tra le mie mani un progetto da cui si diceva dipendesse il destino di una nazione intera. Lo studiai con cura e alla fine ne dedussi che aveva ben poche speranze di riuscire e comunicai subito agli interessati che a quella loro proposta sarebbe seguita una bocciatura.
Il giorno dopo squillò il telefono, udii la voce melliflua di un capo di governo, in  verità non molto influente, profondersi in salamelecchi e incondizionate attestazioni di stima nei miei confronti. Quell’uomo si professava fan delle mie teorie economico-finanziarie e mi confessò persino di aver letto, forse unico caso al mondo, tutti i miei scritti in materia. Mi sentii così ammaliato dalle sue lusinghe che quando giunse allo scopo della sua telefonata - ossia quello di farmi cambiare idea sul progetto che avevo appena bocciato e che a lui stava molto a cuore - gli diedi subito ragione; gli promisi inoltre che, da quel momento in poi, avrei avallato con la mia firma tutti i programmi di sviluppo che mi avesse sottoposto.
In seguito a quell’episodio, mi arresi al mio istinto senza fare resistenza; mi liberai da ogni senso di colpa e non mi posi più alcun freno. Messa da parte ogni cautela, cominciai indiscriminatamente ad autorizzare ogni sorta di protocollo, pratica o progetto firmando io personalmente, con solerzia, tutte le scartoffie. Pretesi addirittura che ogni singolo fascicolo, anche quello riguardante la più insulsa faccenda burocratica, fosse archiviato soltanto quando avesse riportato in calce la mia firma. Vietai l’utilizzo della fotocopiatrice e stabilii fossero utilizzati solo documenti originali, che provvedevo io stesso ad autografare e a consegnare ai funzionari interessati.
Queste mie bizzarrie da burocrate egocentrico, lungi dall’essere viste per quel che erano realmente, cioè delle pure ossessioni narcisistiche, furono interpretate quale cifra distintiva di uno sconfinato senso di responsabilità da me riposto nel lavoro che facevo.
La mia fama di funzionario inflessibile si diffuse a macchia d’olio. Negli anni che seguirono, fui chiamato a presiedere i consigli di amministrazione delle maggiori istituzioni industriali e finanziarie del Paese, pubbliche e private.
Entravo in gioco sempre nei momenti di maggior difficoltà, quando si chiedeva di porre in salvo una partita che sembrava ormai perduta. Passavo da un incarico prestigioso a un altro e, quel che più mi interessava, apponevo la preziosa firma a documenti via via sempre più importanti.
Cominciai, quasi per gioco, a coltivare l’ambizione di sedermi su quel trono irraggiungibile, la cui conquista avrebbe appagato una volta per sempre la mia brama di firmare autografi. Ma non volli indugiare troppo in quei vagheggiamenti, giacché temevo, che questi potessero rivelarsi l’anticamera di una cocente delusione. Quando, però, in capo a qualche anno, divenni un alto funzionario del Ministero dell’interno mi resi conto che la politica avrebbe potuto dischiudere nuovi orizzonti alla mia carriera. Decisi dunque di giocarmi tutte le mie carte. Mi preparai scientificamente a raggiungere l’ambizioso traguardo, ma non ne parlai con nessuno per non correre il rischio di essere silurato anzitempo; feci in modo che su di me non si creassero troppe aspettative e adottai una strategia di basso profilo. La mia tattica fu premiata: dopo qualche anno raggiunsi il mio primo obiettivo che doveva prepararmi alla scalata finale: divenni presidente della banca centrale del mio Paese, un ruolo di enorme prestigio, nonostante quell’organismo ormai da tempo non assolvesse più a quella che era una volta la sua funzione precipua, quella di emettere moneta.
Mi stabilii in quella posizione fingendomi soddisfatto e appagato, recitai la parte del capitano coraggioso che regge saldo il timone dell’economia in tempi burrascosi. Dovetti attendere qualche anno, ma infine venne il mio momento: la crisi economica stringeva un ulteriore giro di vite, lo spread era  alle stelle, il governo del mio paese subì una specie di scomunica dall’alto e, infine, giunse incontrastata l’era della dittatura del tecnicismo finanziario.
Negli stessi giorni ebbi la comunicazione ufficiale che avevo raggiunto il mio scopo ultimo: mi proponevano di diventare presidente della Banca Centrale Internazionale. Feci credere a tutti di essere stupito, incredulo; spudoratamente finsi di avanzare qualche remora sull’opportunità della mia promozione. Ma dentro di me gioivo indicibilmente; piansi addirittura per la contentezza di vedere finalmente coronato il mio sogno di bambino. Il giorno che seguì nomina ufficiale mi chiamarono infatti dalla zecca per avvisarmi che il mio nome, Dario Maghi, stava per essere impresso su tutte le nuove banconote; di lì a poco, avrebbe preso a circolare incessantemente, conteso, venerato, glorificato, tra le avide mani di milioni di persone in tutto il continente. Ero davvero riuscito laddove non aveva potuto neanche Mastroianni.

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